479 a.C. nei pressi della sponda nord del lago Sabatino (Bracciano)
Canne alte costeggiano tutta la costa. Uccelli di ogni specie e provenienza affollano le rive e con il loro gioioso baccano. Rari pescatori, di tanto in tanto, emergono dalla nebbia, solcano l’acqua immobile e silenziosa con le loro leggere imbarcazioni, poi scompaiono tra i flutti.
Era quella una terra selvaggia e generosa, nella quale noi ci aggiravamo come predoni, tanti lupi romani in cerca di una tana. Eravamo pronti a ghermire il nostro nemico, ma poi avevamo bisogno di un luogo sicuro dove nasconderci.
Le Pantane erano allora una zona paludosa e inospitale. Zona di antichi crateri vulcanici, ora trasformatisi in laghi. Al centro c’era un piccolo laghetto (prosciugato nel 1776, ndA), a nord del grande lago Sabatino e di quello di Martignano. Nessun villaggio era stato impiantato in quell’umido luogo, dimora di insetti e di rane. Pochi erano i viandanti che per pescare, cacciare o commerciare si avventuravano in quel pantano.
Nessuno poteva pensare che quello fosse il nostro nascondiglio. Il canneto e la nebbia ci facevano da scudo, il nostro vigore ci permetteva di resistere in quella dimora malsana. Ma non rimanevamo a lungo nel nostro accampamento selvatico, solo la notte, perché sul far del giorno tutti ci sparpagliavamo per la campagna in cerca di prede.
Venivamo da Roma, dalla quale eravamo usciti con grande onore, tra ali di folla acclamanti. Trecentosei uomini, tutti patrizi, tutti membri di un’unica famiglia, la gens Fabia. Gente di valore e di fisico energico, il meglio della città di Roma. L’intera popolazione della città era lì, quando uscimmo dalle mura incontro al nostro destino.
Con noi solo il coraggio e le armi. Non avevamo provviste, se non alcune ceste piene di fave essiccate. Di certo non potevano mancare alla nostra gens, quella dei Fabii, che da esse prende il nome e forse anche la forza. Ci saremmo cibati di quanto sottratto ai Veienti, perché questa era la nostra missione e anche la strategia.
Quando arrivammo presso il fiume Cremera, ormai prossimi alla città di Veio, costruimmo un accampamento ben fortificato su un colle ripido e scosceso. Dovevamo controllare il territorio e rappresentare una spina nel fianco di quei nemici storici. Il forte fu circondato da palizzate e dotato di torri di avvistamento. Chiamammo quel nostro presidio “Forte Cremera” proprio dal nome del fiume.
Di notte i Fabii si rifugiavano nella fortezza, ma di giorno saccheggiavano la campagna e le terre dei Veienti. Sapevamo che non bastava attaccare in un solo luogo, infatti cercammo di creare insicurezza ovunque nel territorio nemico.
Fu allora che noi giovani fummo mandati in gruppi snelli e veloci in ogni direzione, per seminare terrore anche lontano dalla fortezza. Dovevamo colpire rapidi e fuggire, in una continua guerriglia. Ogni gruppo si era cercato una base ben distante dal Forte Cremera, in modo da disorientare i nemici. Eravamo dovunque e per loro era impossibile prevenire gli assalti o anche solo difendersi. Il mio gruppo contava venti guerrieri, i più forti e resistenti. Puntammo verso nord, ben dentro il territorio etrusco, costeggiando il grande lago Sabotino. Passammo vicino al lago di Martignano e raggiungemmo un piccolo laghetto in un territorio paludoso, che chiamavano Le Pantane. Tra le sue nebbie, nascosti dalla vegetazione e quasi immersi nel cuore delle paludi, eravamo come dei fantasmi. Proprio per questo iniziammo a dipingere con cenere bianca i nostri corpi, i volti, le braccia, gli scudi. Il terrore si sparse tra le genti che mai avevano temuto in quelle regioni interne, protette e serene.
Arrivavamo in silenzio, sbucavamo fuori all’improvviso, spesso contro sole oppure nella pioggia o avvolti dalla nebbia. Urlavamo come orchi, sbattevamo le nostre spade sugli scudi e pochi rimanevano in vita per poter raccontare l’accaduto. Popolavamo i loro peggiori incubi e lasciavamo una scia di dolore e devastazione. Alcuni dei sopravvissuti li lasciavamo andare di proposito per diffondere il terrore tra le genti etrusche e disorientare di più i loro capi.
A volte riuscivano a intercettarci, allora ci separavamo e ci lanciavamo in una corsa folle. Conoscevamo le vie di fuga e sapevamo nasconderci: eravamo imprendibili.
I Veienti, esasperati, provarono a farla finita, attaccando il forte romano della Cremera, ma, mentre si disponevano in formazione per l’assalto, furono anticipati e messi in fuga dai Romani.
La situazione era divenuta insostenibile così nel 477 a.C. gli etruschi escogitarono uno stratagemma. Se non riuscivano a prevalere con la forza, avrebbero usato l’inganno.
Cominciarono a far credere di aver rinunciato al territorio, i loro contadini simularono paura e abbandonarono il bestiame nelle campagne fuggendo dentro le mura della città etrusca. Anche le loro truppe arretrarono e si nascosero in attesa.
I Fabii cantarono troppo presto vittoria. Richiamarono i gruppi satelliti e uscirono per far razzia del bestiame. Anche noi fummo richiamati, ma quando giungemmo in vista del forte ci attendeva uno scenario inatteso.
I Romani erano usciti dal forte con corde e bastoni. Avevano con sé solo con le armi leggere o semplici bastoni, pensando di catturare bestie abbandonate e ritornare presto per pranzo. Non furono inviate pattuglie per saggiare il terreno e verificare la sicurezza della sortita. Ci si credeva forti, grazie alle prime vittorie, e si considerava fiacco e timoroso l’avversario. D’altronde nessuno si sarebbe sognato di abbandonare un gregge, dei buoi, persino dei cavalli. I Veienti dovevano essere davvero disperati!
E invece no. Non era così semplice. Non erano bastati i primi scontri militari e tante piccole scaramucce a domare un nemico così determinato. I nostri vollero credere nel successo della loro strategia a tal punto da comportarsi in modo davvero imprudente, da dimostrare la loro cecità, da accettare un rischio elevato.
E fummo tutti puniti. Gli dei scelsero per noi un castigo esemplare.
Proprio mentre i Romani erano impegnati a rincorrere le bestie e a trasportarle verso il forte, ad un segnale, i Veienti uscirono dal bosco e circondarono i nostri compagni: era un’imboscata!
Un muro di guerrieri etruschi ben armati sbarrava la strada per la ritirata all’interno della fortezza. Le forze in campo erano squilibrate, infatti i Veienti erano in numero molto superiore e il panico si impossessò dei nobili Fabii.
Solo il comandante rimase calmo e comandò di schierarsi a cuneo. I Romani si aprirono un varco nel fitto schieramento nemico, ma non fecero molta strada, sempre incalzati dai tanti nemici che accorrevano da ogni dove. Riuscì comunque ai Fabii di radunarsi sopra rilievo. Lì si riorganizzarono e riuscirono a ricacciare indietro gli Etruschi.
La battaglia stava volgendo in favore dei Fabii, anche in considerazione del fatto che erano favoriti dall’esser in posizione sopraelevata rispetto ai nemici. Molti ne cadevano sotto i colpi dei Fabii, eppur gli Etruschi non si arrestavano. Il morale dei Romani era alto e la speranza nella vittoria sempre più forte, quando, all’improvviso, furono attaccati alle spalle. Mentre erano impegnati dalle truppe veienti che dalla piana sospingevano su per la scarpata, alcuni degli assalitori avevano aggirato lo schieramento difensivo e adesso scendevano dalla cima della collina. I Fabii erano presi in una morsa e non potevamo resistere a lungo all’accerchiamento.
Le nostre armi cozzavano sugli scudi etruschi con grande fragore, ma con minore successo, mentre i Veienti colpivano facilmente i Romani indifesi. Ogni varco, aperto con il sacrificio di molti fratelli, veniva subito sigillato.
Fu in quel mentre che arrivammo noi, certi della vittoria e pronti per i festeggiamenti. Eravamo gli ultimi a giungere sul posto perché eravamo quelli che si erano spinti più lontano. Presto ci fu chiara l’amara sorpresa. La vittoria annunciata si era tramutata in disperazione: i nostri erano accerchiati e non si riuscivano a liberare. Eravamo solo in venti e non saremmo riusciti a forzare quel blocco. Proprio in quel momento gli Etruschi si accorsero di noi e si lanciarono subito per ghermire la nuova preda. Erano infiammati dal sangue e dalla buona fortuna per cui con grande ardimento ci braccarono: nessun romano doveva tornare indietro.
Indietreggiando ne uccidemmo una dozzina, ma il loro numero cresceva ad ogni attimo che ci attardavamo. Le strade verso Roma e verso la fortezza di Cremera erano bloccate. Stavano quasi per accerchiarci quando Tito, il nostro capo, comandò di ritirarci. Disse di tornare al nostro accampamento alle Pantane e tutti lo seguimmo, non sapendo che altro fare. Fu una marcia terribile, sempre incalzati dal nemico che non ci lasciava scampo. Ci inseguirono a cavallo e in breve una parte di noi fu raggiunta e accerchiata. Li vedemmo arrendersi, ma i Veiensi non accettarono la resa. Nessuno si salvò.
Eravamo rimasti solo in otto, i più giovani e rapidi. Accelerammo il passo e ci gettammo nella foresta per seminare i loro cavalieri. Non ci illudevamo però di sfuggire alla caccia. Ci avrebbero cercato senza sosta e di sicuro ci avrebbero prima o poi trovati tutti. Solo nelle Pantane forse avremmo potuto far perdere le nostre tracce e magari dopo percorrere l’altra sponda del lago, verso sud ovest, per raggiungere Roma.
Raggiungemmo le Pantane al tramonto, mentre già la nebbia stava salendo dal terreno. I bagliori del sole morente si riflettevano in tutto quel vapore producendo luci infernali, ombre sinistre e oscure premonizioni. I capi della gens erano ormai tutti morti, solo noi restavamo di quella forte famiglia, che aveva dominato la vita pubblica di Roma per tanti anni. Un presagio era nell’aria e nel timore ci stringevamo l’un l’altro.
Sentimmo fruscii avvicinarsi, rumori ovattati provenivano tutt’intorno, attutiti dal terreno molle della palude. Sulle Pantane era calato il silenzio, come se ogni animale, ogni uccello, ogni rana fossero fuggiti via. Anche noi rimanevamo muti, nascosti nel canneto. In quel silenzio spettrale avvertimmo distintamente il loro respiro e anche il nostro si fece affannoso. Un urlo all’improvviso ci pietrificò e subito le spade cozzarono in una mischia animalesca. Il fango impediva movimenti rapidi e tratteneva le nostre gambe, ma anche gli assalitori furono in difficoltà in quel pantano.
Tito fu circondato e ferito ad un fianco. Lottava come un leone, ma avrebbe avuto la peggio se non ci fossimo stretti a lui per aiutarlo. Eravamo circondati, schiena contro schiena, ognuno proteggendo il fianco del vicino. Cacciammo indietro gli etruschi che nel primo scontro ebbero la peggio, ma era solo l’inizio. Erano in tanti e adesso si erano disposti in linea, con gli scudi davanti a proteggerli. Avanzavano con circospezione, avendo assaggiato già il nostro ferro e ben comprendendo il rischio. Non avevamo nessuna speranza.
Tito non era il solo ferito. Manlio era stato colpito ad una gamba e zoppicava, Giulio aveva un profondo squarcio sulla spalla destra ed era costretto a tenere la spada con la sinistra. Livio era in ginocchio in un lago di sangue e forse non si sarebbe più rialzato. Marco era intontito, sopraffatto dalla paura tanto da non riuscire ad alzare nemmeno la spada. Gli altri avevano ferite meno gravi, ma erano esausti.
Solo io ero ancora vigile e pronto.
Ero il più veloce del gruppo e non ero ancora stato ferito. Tito, il più grande ed esperto, si voltò verso di me e mi disse di ritornare a Roma, loro avrebbero protetto la mia fuga. Lui era il nostro capo, ora. Dovevo ubbidire, ma volevo rimanere a combattere con loro fino alla morte. Marco mi cacciò via con una spinta e mi disse che dovevo tornare per poter raccontare il valore dei Romani, infiammare il popolo e vendicare i compagni caduti.
Li guardai un’ultima volta, tutti insieme, come un uomo solo, un eroe ferito, ma mai domo. Mio malgrado corsi nel canneto, scomparendo nella vegetazione e poi oltre, nel bosco, lungo la riva, verso ovest, perdendomi nell’imbrunire, tra gli ultimi raggi del tramonto.
Poco mi riposai quella notte, sempre costeggiando il lago Sabatino verso sud. La mattina successiva riuscii a raggiungere Roma con la triste notizia.
Mi chiamo Quinto Fabio Vibulano, l’unico sopravvissuto della disfatta dei Fabii. Fui console romano e continuai la guerra contro Veio per tanti anni. Non mi è riuscito ancora di vedere la vittoria, ma so che prima o poi riusciremmo ad espugnare la città etrusca perché il Fato ha assegnato a Roma un destino eterno.
Non dimentico il sacrificio dei miei compagni alle Pantane e adesso che mi sono ritirato dalla vita pubblica sono voluto tornare in quei luoghi.
È tutto come quella sera, nella quale corsi senza voltarmi, mentre i miei amici si sacrificavano nel fango. La nebbia sale e mi sembra di rivedere le ombre di Tito, di Marco e degli altri. Ho con me la mia spada, l’unica cosa che portai in quella fuga.
La lancio nel lago, come segno di rispetto e di riconoscenza verso i miei antichi compagni.
Non chiedo a mio figlio una sepoltura ricca, come si conviene alla mia illustre e ricca famiglia. Chiedo solo di essere sepolto spoglio nella palude, di nuovo e per sempre in compagnia dei miei amici.
Ancor oggi, al salir della nebbia nelle Pantane si odono gorgoglii come voci soavi e schiocchi sordi come passi.
E nell’oscurità si scorge appena l’ombra di giovani soldati in marcia.